RIPARTIRE DA SE’ STESSI di Rita Belforti - Rosa per la Vita Onlus


Ci chiamano il gregge. Un gregge è il perfetto esempio dell’omologazione e dell’identità di gruppo. In un gregge una pecora è uguale a un’altra, non solo ha la stessa fisionomia, ma si muove in branco uniformandosi al comportamento dei consimili. La pecora non è autonoma, imita chi gli sta intorno, obbedisce al pastore e teme il cane che serra il gregge, che ne definisce il perimetro per impedire singole iniziative fuori dal coro. Si sa che c’è sempre la pecora nera che tenta di rompere gli schemi! Ma la comodità di non pensare e di non dover decidere cosa fare di fronte a qualsiasi evento, nella convinzione che chi guida, essendo più competente e capace, possa decretare sempre la giusta condotta da tenere, offre in dote anche la presunzione di proteggere dai pericoli, dai lupi, dagli orsi e dalle linci che potrebbero aggredire il gregge e divorare la pecorella incustodita, la più facile e fragile preda inconsapevole.

La pecora si fida del pastore e non è mai raggiunta dal sospetto che proprio lui potrebbe decidere di venderla al mercato o di banchettare con lei come il più spietato predatore. In ogni caso, anche se qualche pecora sparisse dal gregge, nessuno ne noterebbe la mancanza. L’aspetto dell’insieme non muterebbe, il gruppo continuerebbe a seguire chi ha davanti, in un perfetto e monotono conformismo.

Ben diversa è la percezione immaginale di un’orchestra sinfonica. Anche l’orchestra, come il gregge, è un gruppo di individui che si muove compatto, in consonanza con la direzione del maestro, ma nell’orchestra spicca la molteplicità dell’uno, poiché l’armoniosa melodia prodotta dall’insieme è l’esaltazione eufonica delle note generate da ogni singolo strumento combinate insieme, ciascuna con la propria peculiarità vibratoria e la propria frequenza, e finanche la cifra emotiva dell’interpretazione unica e personale di ogni orchestrale.

Una nota omessa o mancante farebbe la differenza perché nell’orchestra un fagotto non può sostituire un arco e un ottone non può rimpiazzare un’arpa. Ogni elemento contribuisce all’insieme con la propria insostituibile unicità. E non ne cambia il valore il fatto che una nota sia alta o bassa, corta o prolungata, dolce o greve, è esattamente quella che serve per dar vita manifesta allo spartito musicale.

La differenza tra un gregge e un’orchestra è macroscopica e l’accostamento tra i due non sembra particolarmente degno di nota. Chi mai potrebbe negare l’evidente conformismo di un gregge di pecore e l’imparagonabile diversificazione di ruoli dei musicisti orchestrali? Eppure, la traslocazione simbolica di queste immagini nei nostri comportamenti sociali, fotografa una realtà non facile da accettare, e perfino da comprendere. Chi potrebbe ammettere consapevolmente di essere assimilato ad una pecora, vittima del sistema, teleguidata e gestita in serie? Ognuno vive l’illusione ipnotica di essere padrone della sua vita, libero di scegliere, di costruire il proprio destino e di essere rispettato come individuo che contribuisce con il proprio lavoro al bene comune.

Eppure, basta osservare due soli aspetti basilari della nostra società, la scuola e la sanità pubblica, per rendersi immediatamente conto che l’attuale modello sociale è molto più simile a quello del gregge che dell’orchestra.

La scuola pubblica, dietro il paravento dell’abolizione dei programmi scolastici a favore di indicazioni generali che facilitino percorsi formativi soggettivi, continua a gestire classi di alunni in modo generalista e indifferenziato, senza tenere minimamente conto delle predisposizioni, inclinazioni, capacità e sensibilità di ogni singolo ragazzo, come il senso della parola educare, dal latino “educĕre”, cioè tirar fuori, imporrebbe.

Del resto, come potrebbe una categoria di lavoratori come quella degli insegnanti, svalorizzati, sottopagati, discriminati per le proprie scelte in tema di salute, vessati con la minaccia anticostituzionale della perdita  dello stipendio se non allineati ai diktat ministeriali, secondo cui l’inoculo di un farmaco sperimentale è condizione sine qua non per poter esercitare la professione di insegnante, attuare con profitto un ruolo cruciale che richiede creatività, estro e fantasia, coltivare le attitudini delle giovani menti a loro affidate, preparare gli adulti di domani a esercitare autonomamente il pensiero critico, indispensabile all’evoluzione e alla crescita, ma ormai totalmente assente nella maggior parte dei nativi digitali?

Nella sanità pubblica le cose non vanno meglio, anzi. Un laureato in medicina oggi è un impiegato del Ministero della Salute forzatamente asservito ai protocolli sanitari ministeriali, sostenuti e imposti dall’Ordine dei Medici che, come il più feroce inquisitore, sospende dall’esercizio della professione o addirittura non esita a radiare i medici che non si allineano al sistema.

Un medico di base ha generalmente qualche migliaio di pazienti e, salvo rare eccezioni, dedica in media dieci ottimistici minuti a visita. Ogni visita, se così possiamo chiamarla, si conclude con la compilazione di una o più ricette per la prescrizione di farmaci o di approfondimenti specialistici.

Tutto l’iter procede secondo protocolli tesi a individuare la categoria diagnostica nella quale inquadrare il paziente. L’obbiettivo che la medicina ufficiale persegue per il futuro ormai imminente è la capacità di far diagnosi da remoto, mediante l’utilizzo di algoritmi complessi, in grado di elaborare grandi quantità di dati analitici. La telemedicina, o medicina a distanza, è lo strumento prescelto per la gestione del gregge.

L’analisi delle informazioni anamnestiche del paziente, attraverso un big-database aggiornato e la capacità di calcolo di un potente elaboratore elettronico, fornisce la diagnosi e la relativa terapia farmacologica protocollata e pronta all’uso. Inutile dire che in un siffatto modello algoritmico, puramente meccanicistico, è molto più efficiente un computer che ha parecchi Terabyte di memoria RAM, rispetto alle limitate capacità mnemoniche ed elaborative di un essere umano.

La tecnologia al posto dell’empatia. La potenza di calcolo invece della capacità di ascolto del non detto. E’ proprio in questa sostituzione disumanizzante che risiede il peccato originale del mondo moderno. Si è giunti senza troppi ripensamenti a questa svolta nella medicina perché, per la scienza medica ufficiale, non esiste la persona in sé, ma la sua malattia e ad ogni diagnosi corrisponde un protocollo terapeutico farmacologico da applicare indiscriminatamente, a prescindere dalla storia personale o dall’origine del problema. Del resto, una pecora vale l’altra.

Da quando Cartesio ha separato la Res Cogitans dalla Res Extensa, dividendo di fatto il corpo fisico dalla psiche e con questo, implicitamente, la materia organica dalla materia sottile o spirituale, l’arte della medicina si è gradualmente trasformata da una disciplina capace di guardare all’uomo nella sua interezza, nella complessa interconnessione tra psyché, l’anima, thumos, le emozioni e l’involucro di carne e sangue, a una branca del meccanicismo applicata all’essere umano, in cui lo studio iper settoriale di ogni componente fisico, che si spinge fino all’estremismo di avere uno specialista per ogni singolo organo, o addirittura per le valvole cardiache o gli annessi cutanei, ha smarrito la visione d’insieme e, soprattutto, non sa più riconoscere il senso biologico della “malattia”, ovvero il significato evolutivo delle manifestazioni psicofisiche, espressioni del nostro dialogo interiore con l’anima.

Se la presunta evoluzione della medicina delle evidenze, basata fondamentalmente sulla chimica e la farmacologia, avesse portato nel tempo ad una riduzione del numero di malattie, alla risoluzione completa delle patologie acute e croniche ed al miglioramento della qualità della vita delle persone, si potrebbe elogiare l’industria chimica come salvatrice dell’Umanità.

Purtroppo, però, non è così. Nella società moderna si riscontrano, con sempre maggiore frequenza, patologie, prevalentemente croniche, distribuite in fasce di età sempre più giovani e finanche nei bambini.

Le malattie neuro-degenerative, cardiovascolari e oncologiche sono in crescita, così come i danni iatrogeni provocati dai farmaci e dagli atti medici. Aumentano l’infertilità, soprattutto maschile e i disturbi cognitivi e neuro-psichici.

E’ evidente che la direzione a senso unico che ha intrapreso il sistema sanitario nazionale è fondata su un paradigma che da oltre un secolo punta più agli interessi dell’industria che al benessere della persona. E’ indiscutibilmente ora di ribaltare il tavolo e ripartire da sé stessi.

Per farlo, non sarà sufficiente una revisione radicale del modello diagnostico e terapeutico adottato dai professionisti della salute. Per cambiare il modo di prendersi cura di sé dovrà avvenire un ribaltamento culturale del concetto di salute e di malattia nella testa di ogni singolo individuo.

Solo questo delicato passaggio concettuale potrà creare il basamento, il terreno fertile, nel quale attecchiscano i semi del nuovo mondo, in cui la salute non è semplicemente una check list di parametri biometrici con valori predefiniti di normalità, dal colesterolo alla pressione arteriosa, dalla glicemia ai trigliceridi, ma è un disegno policromatico e variegato che appartiene ad ogni individuo nella sua unicità.

Allora è fondamentale che ogni persona risvegliata, che voglia smettere di delegare la propria salute a terzi e desideri prendere in mano la propria vita e il proprio destino, attuando un vero dialogo tra le cellule del corpo e l’anima che le abita, sia consapevole che la maggioranza delle cosiddette malattie è la manifestazione di problemi che hanno origine nell’individuo stesso e che il corpo evidenzia materialmente affinché possano essere osservati, compresi e superati attraverso una crescita evolutiva.

Dovremmo amare le malattie che ci costruiamo nel tempo, dialogare con questa parte misteriosa di noi, anziché combatterla come un nemico esterno, perché è la migliore opportunità che abbiamo di comprendere noi stessi e la nostra storia psichica ed emotiva. La malattia è la chiave di accesso al nostro mondo interiore, altrimenti imperscrutabile attraverso la iper-razionalità alla quale la nostra vita quotidiana ci costringe.

Il lasso di tempo nel quale si depositano le memorie psichiche, che potranno poi originare dei danni manifesti, intercorre dal concepimento fino al raggiungimento della maturità ormonale, indicativamente tra i 7 e i 12/13 anni, un tempo questo, davvero speciale in quanto rappresenta un traguardo di crescita fondamentale, sia dal punto di vista fisico, perché implica la maturazione sessuale e dei ritmi beta, con il completamento della lateralizzazione degli emisferi cerebrali, sia da quello emozionale, con la stabilizzazione delle qualità percettive individuali, fino a quello spirituale, come ricorda il Bar-Mitzvah, ovvero la cerimonia per il raggiungimento dell’età della responsabilità e della maturità spirituale secondo l’antico culto ebraico.

Come ha insegnato Joaquín Grau, il noto ricercatore spagnolo che dal 1960 ha studiato i processi di percezione degli stati di coscienza, giornalista, sceneggiatore e scrittore di numerosi libri, tra cui il trattato teorico-pratico di anateoresi “Le chiavi della malattia”, non esistono solo i processi di percezione dell’emisfero cerebrale sinistro, che rappresenta il piano di coscienza indagato dalla scienza meccanicista, dalla psicologia classica e dalla medicina ortodossa, per le quali a una causa corrisponde sempre un effetto lungo un tempo lineare, ma sussistono anche i processi di percezione dell’emisfero cerebrale destro, acausale e interiorizzatore, che pertanto rende ogni individuo unico e irripetibile, dotato di una biografia emozionale esclusiva, che costituisce il fondamento della sua storia personale, delle sue somatizzazioni, delle sue “malattie”, a seconda che l’energia, scaturita dai fatti emozionalmente dolorosi sofferti nel corso della gestazione nell’utero materno, durante il parto o lungo i primi anni dell’infanzia, sia stata trattenuta e sommersa, senza poter fluire liberamente.

Se ognuno si costruisce le proprie malattie nel tempo, in modo assolutamente personale e non comparabile, come si può pensare che sia vincente l’adozione di protocolli terapeutici standardizzati per ogni categoria diagnostica, uguali per tutti perché basati sulla classificazione delle malattie e non sull’individuo?

Il farmaco potrà alleviare il sintomo, è innegabile, ma non sfiorerà nemmeno lontanamente il processo di generazione del danno, che dovrà essere approcciato su un piano totalmente diverso.

Le memorie emozionali delle prime fasi della vita, soprattutto di quella intrauterina, rappresentano dei cumuli traumatici che rimangono repressi per un periodo più o meno lungo. Durante questo tempo di latenza essi si energizzano sempre più, fino a che nella vita della persona non avviene un fatto analogico, cioè un evento qualsiasi, ma con un contenuto emozionale simile che richiami il cumulo traumatico e che possa far esplodere quella carica patologica.

Grau, alla luce di numerosi anni di esperienza di terapia anateoretica, è convinto che ogni malattia risponda all’attualizzazione di un problema emozionale e affettivo concreto e spiega: “Non possiamo dire che si cura l’adizione all’eroina, ma che si ridà la capacità di vivere nel mondo a questa persona che tenta una volta dopo l’altra di tornare al caldo e sicuro bagno di endorfine che era l’utero di sua madre. Come non si cura l’adizione alla cocaina, ma si restituisce l’equilibrio emozionale a una persona il cui trauma affettivo la spinge a tentare tutte le strade della vita in una sola notte. Come non si cura un’allergia, ma una persona che non sopporta il suo capo, la sua famiglia…, insomma, che è asfissiata dall’ambiente in cui vive. O quella che si manifesta dermatologicamente sulla frontiera della pelle per rifiuto del mondo esteriore. Come non si cura un AIDS, ma una persona con tanti e così profondi buchi affettivi che non solo desidera morire, ma anche mostrarci lo spaventoso spettacolo della sua agonia”.

Per incontrare questi cumuli traumatici è necessario un rilassamento che porti i ritmi cerebrali nella banda di frequenza dei 4 Hz, che permetta di viaggiare mentalmente verso il passato e di rivivere l’evento doloroso, che la coscienza tiene bloccato, con tutta la sua carica emozionale. La liberazione di questa carica energetica permette la comprensione del trauma e infine la sua dissoluzione, nel momento in cui i due emisferi cerebrali, il conscio e l’inconscio, sono entrambi aperti e si scambiano informazioni attraverso il corpo calloso che ne è il ponte di collegamento.

Questo fascio di tessuto nervoso che lega l’emisfero cerebrale sinistro a quello destro, pare si sia ridotto gradualmente nel tempo ed ora appare estremamente assottigliato nella nostra civiltà, sempre più razionale e impostata sul modello duale dell’emisfero sinistro, prettamente maschile, mentre aveva una consistenza molto più compatta nei cervelli degli uomini delle origini, in cui l’intuizione e il linguaggio simbolico mitologico del cervello destro erano consuetudini ampiamente diffuse del modo di essere.

Avremmo bisogno di recuperare un po’ di questa integrità e per ottenerla non si può che ripartire da noi stessi, ma bisogna essere disposti a farlo. Nessun medico o terapeuta potrà guarire realmente nessuna malattia, a meno che la persona non voglia mettersi in gioco. E’ tutta una questione di corretta comunicazione, tra il terapeuta e il paziente, tra il paziente e sé stesso e poi tra il paziente e la sua cerchia di relazioni. E’ una sfida enorme, soprattutto per chi asseconda la logica del gregge, per comodità, per paura di saltare lo steccato o timore di esplorare l’ignoto, ma questo passaggio non potrà essere ignorato a lungo.

I tempi sono maturi per il salto di specie. Chi ha percepito la sua nota interiore non potrà fare a meno di suonarla, al richiamo di una melodia armonizzatrice che si fa sempre più chiara e che dovrebbe aiutarci a superare le antiche paure e gli attaccamenti che ci tengono ancora incollati ad un sistema sociale, sanitario, economico, educativo obsoleti, che non rispondono più ai requisiti animici dell’uomo nuovo.

 

Da: L'altra Medicina - Luglio 2022







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