Ci chiamano il gregge. Un gregge è il perfetto
esempio dell’omologazione e dell’identità di gruppo. In un gregge una pecora è
uguale a un’altra, non solo ha la stessa fisionomia, ma si muove in branco uniformandosi
al comportamento dei consimili. La pecora non è autonoma, imita chi gli sta
intorno, obbedisce al pastore e teme il cane che serra il gregge, che ne
definisce il perimetro per impedire singole iniziative fuori dal coro. Si sa
che c’è sempre la pecora nera che tenta di rompere gli schemi! Ma la comodità
di non pensare e di non dover decidere cosa fare di fronte a qualsiasi evento,
nella convinzione che chi guida, essendo più competente e capace, possa
decretare sempre la giusta condotta da tenere, offre in dote anche la
presunzione di proteggere dai pericoli, dai lupi, dagli orsi e dalle linci che potrebbero
aggredire il gregge e divorare la pecorella incustodita, la più facile e
fragile preda inconsapevole.
La pecora si fida del pastore e non è mai
raggiunta dal sospetto che proprio lui potrebbe decidere di venderla al mercato
o di banchettare con lei come il più spietato predatore. In ogni caso, anche se
qualche pecora sparisse dal gregge, nessuno ne noterebbe la mancanza. L’aspetto
dell’insieme non muterebbe, il gruppo continuerebbe a seguire chi ha davanti,
in un perfetto e monotono conformismo.
Ben diversa è la percezione immaginale di un’orchestra
sinfonica. Anche l’orchestra, come il gregge, è un gruppo di individui che si
muove compatto, in consonanza con la direzione del maestro, ma nell’orchestra spicca
la molteplicità dell’uno, poiché l’armoniosa melodia prodotta dall’insieme è l’esaltazione
eufonica delle note generate da ogni singolo strumento combinate insieme,
ciascuna con la propria peculiarità vibratoria e la propria frequenza, e finanche
la cifra emotiva dell’interpretazione unica e personale di ogni orchestrale.
Una nota omessa o mancante farebbe la
differenza perché nell’orchestra un fagotto non può sostituire un arco e un
ottone non può rimpiazzare un’arpa. Ogni elemento contribuisce all’insieme con
la propria insostituibile unicità. E non ne cambia il valore il fatto che una
nota sia alta o bassa, corta o prolungata, dolce o greve, è esattamente quella
che serve per dar vita manifesta allo spartito musicale.
La differenza tra un gregge e un’orchestra è
macroscopica e l’accostamento tra i due non sembra particolarmente degno di
nota. Chi mai potrebbe negare l’evidente conformismo di un gregge di pecore e l’imparagonabile
diversificazione di ruoli dei musicisti orchestrali? Eppure, la traslocazione
simbolica di queste immagini nei nostri comportamenti sociali, fotografa una
realtà non facile da accettare, e perfino da comprendere. Chi potrebbe
ammettere consapevolmente di essere assimilato ad una pecora, vittima del sistema,
teleguidata e gestita in serie? Ognuno vive l’illusione ipnotica di essere
padrone della sua vita, libero di scegliere, di costruire il proprio destino e
di essere rispettato come individuo che contribuisce con il proprio lavoro al
bene comune.
Eppure, basta osservare due soli aspetti
basilari della nostra società, la scuola e la sanità pubblica, per rendersi
immediatamente conto che l’attuale modello sociale è molto più simile a quello
del gregge che dell’orchestra.
La scuola pubblica, dietro il paravento dell’abolizione
dei programmi scolastici a favore di indicazioni generali che facilitino
percorsi formativi soggettivi, continua a gestire classi di alunni in modo
generalista e indifferenziato, senza tenere minimamente conto delle
predisposizioni, inclinazioni, capacità e sensibilità di ogni singolo ragazzo,
come il senso della parola educare, dal latino “educĕre”, cioè tirar fuori,
imporrebbe.
Del resto, come potrebbe una categoria di
lavoratori come quella degli insegnanti, svalorizzati, sottopagati, discriminati
per le proprie scelte in tema di salute, vessati con la minaccia
anticostituzionale della perdita dello
stipendio se non allineati ai diktat ministeriali, secondo cui l’inoculo di un
farmaco sperimentale è condizione sine qua non per poter esercitare la
professione di insegnante, attuare con profitto un ruolo cruciale che richiede
creatività, estro e fantasia, coltivare le attitudini delle giovani menti a
loro affidate, preparare gli adulti di domani a esercitare autonomamente il
pensiero critico, indispensabile all’evoluzione e alla crescita, ma ormai
totalmente assente nella maggior parte dei nativi digitali?
Nella sanità pubblica le cose non vanno
meglio, anzi. Un laureato in medicina oggi è un impiegato del Ministero della
Salute forzatamente asservito ai protocolli sanitari ministeriali, sostenuti e
imposti dall’Ordine dei Medici che, come il più feroce inquisitore, sospende
dall’esercizio della professione o addirittura non esita a radiare i medici che
non si allineano al sistema.
Un medico di base ha generalmente qualche
migliaio di pazienti e, salvo rare eccezioni, dedica in media dieci ottimistici
minuti a visita. Ogni visita, se così possiamo chiamarla, si conclude con la
compilazione di una o più ricette per la prescrizione di farmaci o di approfondimenti
specialistici.
Tutto l’iter procede secondo protocolli tesi a
individuare la categoria diagnostica nella quale inquadrare il paziente. L’obbiettivo
che la medicina ufficiale persegue per il futuro ormai imminente è la capacità
di far diagnosi da remoto, mediante l’utilizzo di algoritmi complessi, in grado
di elaborare grandi quantità di dati analitici. La telemedicina, o medicina a
distanza, è lo strumento prescelto per la gestione del gregge.
L’analisi delle informazioni anamnestiche del
paziente, attraverso un big-database aggiornato e la capacità di calcolo di un
potente elaboratore elettronico, fornisce la diagnosi e la relativa terapia
farmacologica protocollata e pronta all’uso. Inutile dire che in un siffatto
modello algoritmico, puramente meccanicistico, è molto più efficiente un
computer che ha parecchi Terabyte di memoria RAM, rispetto alle limitate capacità
mnemoniche ed elaborative di un essere umano.
La tecnologia al posto dell’empatia. La
potenza di calcolo invece della capacità di ascolto del non detto. E’ proprio
in questa sostituzione disumanizzante che risiede il peccato originale del
mondo moderno. Si è giunti senza troppi ripensamenti a questa svolta nella
medicina perché, per la scienza medica ufficiale, non esiste la persona in sé,
ma la sua malattia e ad ogni diagnosi corrisponde un protocollo terapeutico farmacologico
da applicare indiscriminatamente, a prescindere dalla storia personale o dall’origine
del problema. Del resto, una pecora vale l’altra.
Da quando Cartesio ha separato la Res Cogitans
dalla Res Extensa, dividendo di fatto il corpo fisico dalla psiche e con
questo, implicitamente, la materia organica dalla materia sottile o spirituale,
l’arte della medicina si è gradualmente trasformata da una disciplina capace di
guardare all’uomo nella sua interezza, nella complessa interconnessione tra
psyché, l’anima, thumos, le emozioni e l’involucro di carne e sangue, a una
branca del meccanicismo applicata all’essere umano, in cui lo studio iper
settoriale di ogni componente fisico, che si spinge fino all’estremismo di
avere uno specialista per ogni singolo organo, o addirittura per le valvole
cardiache o gli annessi cutanei, ha smarrito la visione d’insieme e,
soprattutto, non sa più riconoscere il senso biologico della “malattia”, ovvero
il significato evolutivo delle manifestazioni psicofisiche, espressioni del
nostro dialogo interiore con l’anima.
Se la presunta evoluzione della medicina delle
evidenze, basata fondamentalmente sulla chimica e la farmacologia, avesse
portato nel tempo ad una riduzione del numero di malattie, alla risoluzione
completa delle patologie acute e croniche ed al miglioramento della qualità
della vita delle persone, si potrebbe elogiare l’industria chimica come
salvatrice dell’Umanità.
Purtroppo, però, non è così. Nella società
moderna si riscontrano, con sempre maggiore frequenza, patologie,
prevalentemente croniche, distribuite in fasce di età sempre più giovani e
finanche nei bambini.
Le malattie neuro-degenerative,
cardiovascolari e oncologiche sono in crescita, così come i danni iatrogeni provocati
dai farmaci e dagli atti medici. Aumentano l’infertilità, soprattutto maschile
e i disturbi cognitivi e neuro-psichici.
E’ evidente che la direzione a senso unico che
ha intrapreso il sistema sanitario nazionale è fondata su un paradigma che da
oltre un secolo punta più agli interessi dell’industria che al benessere della
persona. E’ indiscutibilmente ora di ribaltare il tavolo e ripartire da sé
stessi.
Per farlo, non sarà sufficiente una revisione
radicale del modello diagnostico e terapeutico adottato dai professionisti
della salute. Per cambiare il modo di prendersi cura di sé dovrà avvenire un
ribaltamento culturale del concetto di salute e di malattia nella testa di ogni
singolo individuo.
Solo questo delicato passaggio concettuale
potrà creare il basamento, il terreno fertile, nel quale attecchiscano i semi
del nuovo mondo, in cui la salute non è semplicemente una check list di
parametri biometrici con valori predefiniti di normalità, dal colesterolo alla
pressione arteriosa, dalla glicemia ai trigliceridi, ma è un disegno
policromatico e variegato che appartiene ad ogni individuo nella sua unicità.
Allora è fondamentale che ogni persona
risvegliata, che voglia smettere di delegare la propria salute a terzi e
desideri prendere in mano la propria vita e il proprio destino, attuando un
vero dialogo tra le cellule del corpo e l’anima che le abita, sia consapevole
che la maggioranza delle cosiddette malattie è la manifestazione di problemi
che hanno origine nell’individuo stesso e che il corpo evidenzia materialmente affinché
possano essere osservati, compresi e superati attraverso una crescita
evolutiva.
Dovremmo amare le malattie che ci costruiamo
nel tempo, dialogare con questa parte misteriosa di noi, anziché combatterla
come un nemico esterno, perché è la migliore opportunità che abbiamo di comprendere
noi stessi e la nostra storia psichica ed emotiva. La malattia è la chiave di
accesso al nostro mondo interiore, altrimenti imperscrutabile attraverso la
iper-razionalità alla quale la nostra vita quotidiana ci costringe.
Il lasso di tempo nel quale si depositano le
memorie psichiche, che potranno poi originare dei danni manifesti, intercorre
dal concepimento fino al raggiungimento della maturità ormonale,
indicativamente tra i 7 e i 12/13 anni, un tempo questo, davvero speciale in
quanto rappresenta un traguardo di crescita fondamentale, sia dal punto di
vista fisico, perché implica la maturazione sessuale e dei ritmi beta, con il completamento
della lateralizzazione degli emisferi cerebrali, sia da quello emozionale, con
la stabilizzazione delle qualità percettive individuali, fino a quello
spirituale, come ricorda il Bar-Mitzvah, ovvero la cerimonia per il
raggiungimento dell’età della responsabilità e della maturità spirituale
secondo l’antico culto ebraico.
Come ha insegnato Joaquín Grau, il noto
ricercatore spagnolo che dal 1960 ha studiato i processi di percezione degli
stati di coscienza, giornalista, sceneggiatore e scrittore di numerosi libri,
tra cui il trattato teorico-pratico di anateoresi “Le chiavi della malattia”,
non esistono solo i processi di percezione dell’emisfero cerebrale sinistro,
che rappresenta il piano di coscienza indagato dalla scienza meccanicista, dalla
psicologia classica e dalla medicina ortodossa, per le quali a una causa
corrisponde sempre un effetto lungo un tempo lineare, ma sussistono anche i
processi di percezione dell’emisfero cerebrale destro, acausale e
interiorizzatore, che pertanto rende ogni individuo unico e irripetibile,
dotato di una biografia emozionale esclusiva, che costituisce il fondamento
della sua storia personale, delle sue somatizzazioni, delle sue “malattie”, a
seconda che l’energia, scaturita dai fatti emozionalmente dolorosi sofferti nel
corso della gestazione nell’utero materno, durante il parto o lungo i primi
anni dell’infanzia, sia stata trattenuta e sommersa, senza poter fluire
liberamente.
Se ognuno si costruisce le proprie malattie nel tempo, in modo assolutamente personale e non comparabile, come si può pensare che sia vincente l’adozione di protocolli terapeutici standardizzati per ogni categoria diagnostica, uguali per tutti perché basati sulla classificazione delle malattie e non sull’individuo?
Il farmaco potrà alleviare il sintomo, è
innegabile, ma non sfiorerà nemmeno lontanamente il processo di generazione del
danno, che dovrà essere approcciato su un piano totalmente diverso.
Le memorie emozionali delle prime fasi della
vita, soprattutto di quella intrauterina, rappresentano dei cumuli traumatici
che rimangono repressi per un periodo più o meno lungo. Durante questo tempo di
latenza essi si energizzano sempre più, fino a che nella vita della persona non
avviene un fatto analogico, cioè un evento qualsiasi, ma con un contenuto
emozionale simile che richiami il cumulo traumatico e che possa far esplodere
quella carica patologica.
Grau, alla luce di numerosi anni di esperienza
di terapia anateoretica, è convinto che ogni malattia risponda all’attualizzazione
di un problema emozionale e affettivo concreto e spiega: “Non possiamo dire che
si cura l’adizione all’eroina, ma che si ridà la capacità di vivere nel mondo a
questa persona che tenta una volta dopo l’altra di tornare al caldo e sicuro
bagno di endorfine che era l’utero di sua madre. Come non si cura l’adizione
alla cocaina, ma si restituisce l’equilibrio emozionale a una persona il cui
trauma affettivo la spinge a tentare tutte le strade della vita in una sola
notte. Come non si cura un’allergia, ma una persona che non sopporta il suo
capo, la sua famiglia…, insomma, che è asfissiata dall’ambiente in cui vive. O
quella che si manifesta dermatologicamente sulla frontiera della pelle per rifiuto
del mondo esteriore. Come non si cura un AIDS, ma una persona con tanti e così
profondi buchi affettivi che non solo desidera morire, ma anche mostrarci lo
spaventoso spettacolo della sua agonia”.
Per incontrare questi cumuli traumatici è
necessario un rilassamento che porti i ritmi cerebrali nella banda di frequenza
dei 4 Hz, che permetta di viaggiare mentalmente verso il passato e di rivivere
l’evento doloroso, che la coscienza tiene bloccato, con tutta la sua carica
emozionale. La liberazione di questa carica energetica permette la comprensione
del trauma e infine la sua dissoluzione, nel momento in cui i due emisferi
cerebrali, il conscio e l’inconscio, sono entrambi aperti e si scambiano
informazioni attraverso il corpo calloso che ne è il ponte di collegamento.
Questo fascio di tessuto nervoso che lega l’emisfero
cerebrale sinistro a quello destro, pare si sia ridotto gradualmente nel tempo
ed ora appare estremamente assottigliato nella nostra civiltà, sempre più razionale
e impostata sul modello duale dell’emisfero sinistro, prettamente maschile,
mentre aveva una consistenza molto più compatta nei cervelli degli uomini delle
origini, in cui l’intuizione e il linguaggio simbolico mitologico del cervello
destro erano consuetudini ampiamente diffuse del modo di essere.
Avremmo bisogno di recuperare un po’ di questa
integrità e per ottenerla non si può che ripartire da noi stessi, ma bisogna
essere disposti a farlo. Nessun medico o terapeuta potrà guarire realmente
nessuna malattia, a meno che la persona non voglia mettersi in gioco. E’ tutta
una questione di corretta comunicazione, tra il terapeuta e il paziente, tra il
paziente e sé stesso e poi tra il paziente e la sua cerchia di relazioni. E’
una sfida enorme, soprattutto per chi asseconda la logica del gregge, per
comodità, per paura di saltare lo steccato o timore di esplorare l’ignoto, ma questo
passaggio non potrà essere ignorato a lungo.
I tempi sono maturi per il salto di specie.
Chi ha percepito la sua nota interiore non potrà fare a meno di suonarla, al
richiamo di una melodia armonizzatrice che si fa sempre più chiara e che
dovrebbe aiutarci a superare le antiche paure e gli attaccamenti che ci tengono
ancora incollati ad un sistema sociale, sanitario, economico, educativo
obsoleti, che non rispondono più ai requisiti animici dell’uomo nuovo.
Da: L'altra Medicina - Luglio 2022
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