Anateoresi: che cos'é?
Traduzione
di M. Luisa Cozzi
Creata da Joaquín Grau, Anateoresi è una terapia basata su postulati
scientifici ampiamente comprovati sperimentalmente. Ha i suoi fondamenti nei
diversi ritmi cerebrali che condizionano la nostra percezione nel corso della
nostra fase di crescita, dal momento in cui veniamo concepiti ai sette-dodici
anni, quando la frequenza cerebrale è già di ritmi beta maturi. Ecco perché
Anateoresi permette al paziente di rivivere le cause emozionali profonde che
alimentano la sua malattia. Quasi sempre si tratta di mali che hanno le loro
radici nel corso della gestazione e/o nascita. A proposito dell’efficacia di
Anateoresi è stato detto che è " l’apporto più rivoluzionario nella
ricerca di un nuovo modo d’intendere la medicina". Essendo una terapia
psicologica, Anateoresi non utilizza farmaci. Si serve solo di uno stato di
coscienza speciale denominato ISRA (Induzione allo Stato Regressivo
Anateoretico), che equivale ad un semplice rilassamento in cui il paziente non
perde la coscienza; al contrario, si mantiene perfettamente lucido, padrone in
ogni momento dei suoi atti. Lo stato ISRA, pur essendo un semplice
rilassamento, comporta comunque un’immersione in un livello di coscienza – di
fatto a 4 Hz – che permette di cancellare nel malato, mediante un corretto
dialogo, le cause remote ed originarie della sua malattia. Ecco perché
Anateoresi non solo è estremamente valida in ogni tipo di malattia, ma è anche
una psicoterapia particolarmente rapida e per di più totalmente scevra da
pericoli. Anateoresi è una tecnica regressiva nella misura in cui attua la sua
ricerca negli avvenimenti traumatici – ed anche gratificanti – accaduti al
paziente quando era embrione, feto, neonato e nell’infanzia fino ai
sette-dodici anni, ma nel resto della sua terapeutica Anateoresi è del tutto
originale. Perché scavando nel passato del paziente Anateoresi è una diversa
terapia. Anateoresi è una terapia percettiva. L’unica terapia autenticamente
percettiva esistente. Anateoresi poggia i suoi postulati terapeutici sui
diversi modi di percepire. In particolare distingue la percezione analogica che
corrisponde all’emisfero cerebrale destro dalla percezione causale che
caratterizza l’emisfero cerebrale sinistro. E tiene in considerazione il fatto
che ogni essere umano manca della percezione causale nella fase prenatale e non
la possiede in forma matura durante l’infanzia. Ecco perché la terapia
anateoretica esige dai terapeuti un modo analogico di dialogare col paziente.
Un paziente che si trova in uno stato peculiare. In uno stato che Joaquín Grau,
creatore della terapia Anateoresi, chiama Induzione allo Stato Regressivo
Anateoretico (ISRA), uno stato in cui il paziente è semplicemente rilassato,
uno stato in cui non perde mai coscienza come avviene con l’ipnosi profonda,
uno stato in cui, però, rivive i fatti vissuti (le vivencias ) - sempre certi -
sofferti o goduti quando si trovava nel grembo materno, alla nascita e
nell’infanzia, fasi della vita in cui si producono gli impatti che poi
diventeranno malattia. Naturalmente, Anateoresi ha molte altre caratteristiche
sorprendenti che la distinguono dalle cosiddette terapie regressive; per
esempio quando il paziente vivencia – visualizza e sente – gli impatti sofferti
nel grembo materno, può visualizzare quello che veramente sta facendo sua madre
al momento: discute, vomita, abortisce... Al punto che se il paziente è un
figlio adottivo e non ha conosciuto i suoi genitori biologici, normalmente
nella terapia visualizza proprio loro. Ed infine bisogna sapere che Anateoresi
non cura malattie ma ammalati. Perché ogni paziente è una biografia che deve
essere trattata individualmente. Il tuo caso sei tu, perché tu sei la tua
malattia. Perciò bisogna parlare con te, non con la tua malattia –come si fa di
solito – per conoscere il tuo caso.
La responsabilità di essere madre
Traduzione di M. Luisa Cozzi
Ai tempi dei nostri nonni, ed a volte ancor oggi, la gravidanza era considerata
un po’ come se la donna stesse tenendo in incubazione un tumore benigno che, in
modo più o meno semplice, avrebbe espulso dopo nove mesi. Per cui si trattava
di sopportare pazientemente il fastidio e tutt’al più capire che quella
protuberanza-bebè comincia ad avere una propria entità quando, nella gravidanza
avanzata, dà segni di vita con qualche bella pedata nella pancia che lo ospita.
Ai giorni nostri si sa che quello che annida una madre gravida non è qualcosa
di simile ad un’escrescenza tumorale benigna, ma un essere in crescita che
richiede determinate cure per non andare a male. Ma tra queste cure raramente
si includono le dovute attenzioni emozionali. In generale, la medicina
ufficiale continua a considerare il nascituro un tumore benigno, sia pure
bisognoso di un maggior controllo ed attenzioni di carattere soprattutto
medico, senza tener conto (o tenendo in scarsissimo conto) la simbiosi
emozionale con la propria madre in cui vive il nascituro.
Anatheóresis® invece sa bene, ed anche alcuni ostetrici cominciano a saperlo,
qual è il processo di maturazione percettiva che vive il nascituro nel grembo
materno. Si sa quindi che la sua vita è la vita emozionale che corrisponde ai
ritmi cerebrali lenti. E che tali emozioni, traumatiche o gratificanti che
siano, sono quelle che stanno conformando le strutture sinaptiche
iniziali: le autostrade su cui poi circolerà il pensiero. Autostrade
suscettibili di essere più o meno ammalorate da certi impatti emozionalmente
traumatici che non solo ci apparterranno alla nascita ma saranno diventati noi
stessi. Perché attraverso di esse circolerà il nostro modo di essere ed agire.
E saranno esse a dirigere la nostra vita, dal momento che saranno i nostri
desideri ed i nostri timori.
E chi traccia queste autostrade? Ogni figlio è soprattutto della madre. Non va
dimenticato che il nascituro non esiste da sé. Il nascituro è la madre. Il nascituro
– in maggiore o minor misura, a seconda del mese di gestazione in cui si
trova – è un innesto che vive mimetizzato con la madre e che solo alla nascita
inizia una vita propria. Benché in realtà non sarà propria perché si porterà
dietro quello che, emozionalmente buono o cattivo, gli sarà giunto da sua
madre.
Tenendo conto del fatto che è la madre ad ospitare nel suo seno il figlio e che
lo ospita non come qualcosa di estraneo ma di unito a lei, che è lei; e sapendo
che la percezione del nascituro è solo e soltanto emozionale, non c’è dubbio –
e la terapia Anateoresi lo ha comprovato – che le emozioni che vive il
nascituro sono quelle che vive la madre anche quando ad averle causate sia
stata un’altra persona.
Immaginiamo un padre che torna a casa ubriaco e picchia la moglie incinta. Il
nascituro non soffrirà – e non immagazzinerà come memoria sentita – lo stato
animico del padre ma il modo emozionale con cui la madre riceva quel
maltrattamento. Perché quello che arriva al nascituro è la risposta sentita
della madre all’atteggiamento aggressivo del padre. E non c’è dubbio che di
fronte ad uno stesso fatto la risposta di una madre gestante può essere molto
diversa dalla risposta di un’altra, che dipende da come sia la biografia
emozionale di danni subiti di ciascuna madre. Dato che il canale di emozioni
che ogni madre è per il proprio figlio nascituro continua ad avere le sue
specifiche impurità. E ciò modifica il messaggio. Così, di fronte ad
un’aggressione una madre può comprendere lo stato di suo marito e l’altra,
invece, reagire con l’odio più profondo verso di lui. Un odio che raccoglie in
modo globale il nascituro.
E quali sono i danni peggiori che una madre può trasmettere? Anzitutto si deve
tener conto che ciò che un adulto può considerare i danni peggiori non sono
necessariamente quelli che possono danneggiare di più un nascituro. Questo per
la semplice ragione che la gravità di un danno nei primi stadi di percezione
dipende fondamentalmente dalla capacità percettiva che un nascituro ha per difendersi.
Così, è particolarmente grave non accettare emozionalmente la gravidanza dal
momento che tale emozione la madre la trasmette ad un preembrione. Ossia ad un
essere senz’alcuna capacità di difesa percettiva.
D’altro canto, è importante tener conto che ci sono due tipi di danni: quelli
emozionalmente ininterrotti e di fondo, senza un fatto concreto, e quelli
puntuali. Così, è particolarmente grave che una madre stia trasmettendo, per il
solo fatto di averlo, uno stato emotivo negativo caratteristico della sua
personalità di fondo. Una madre depressiva, per esempio. E questo perché tali
emozioni sono un tratto fondamentale che man mano colorano emozionalmente il
processo di maturazione percettiva del nascituro. Un po’ come se una di queste
madri stesse tingendo la statua-figlio che sta formando con una certa
colorazione. Qualcosa, quindi, che diventa già parte della personalità di fondo
del futuro bambino. Qualcosa, d’altro canto, difficile da ripulire perché tale
colorazione in gran misura sarà l’io del figlio.
L’altro danno, quello puntuale, presuppone l’esistenza di un fatto. Per
esempio, la caduta sopra il ventre di una madre gestante o la paura vissuta da
una madre gestante di fronte a una rapina a mano armata. In entrambi i casi
sappiamo che l’impatto che riceve il nascituro non è il fatto ma l’emotività
con cui la madre vive il fatto. E non solamente secondo il tipo e grado con cui
lo viva la madre, ma anche a seconda dello stato percettivo – più o meno maturo
– del nascituro. Però, anche ammettendo che sia importante l’impatto traumatico
emozionale che comporta un fatto puntuale, si tratta in definitiva di qualcosa
che accade una volta, non di qualcosa che fa parte della natura
caratteriologica della madre.
A questo punto va chiarito che un fatto puntuale può, ciononostante, essere
motivato da un danno di fondo. Va anche chiarito che gli impatti di fondo sono
particolarmente gravi per il nascituro a causa della loro persistenza. Ecco
perché un danno puntuale, per il fatto di non essere persistente, anche se può
essere considerato grave dalla mente razionale di un adulto può tuttavia non
aver lasciato traccia traumatica nel nascituro. La cosa grave non è che una
madre manifesti il suo rammarico accorgendosi di essere incinta, la cosa grave
è mantenere questo sentimento di non accettazione un mese dopo l’altro.
L’esperienza apportata dalla terapia Anateoresi ci avverte della necessità che
ogni donna gestante tenga conto che nel suo seno si forgia il futuro di suo
figlio. E quel che più importa è che sappia che dare alla luce il figlio che ha
sognato è qualcosa che sta nelle sue mani. Cosa che sfortunatamente non possono
dire i genitori adottivi né coloro che si servono di una madre in affitto. Dirò
di più: questi genitori che ricevono un figlio portato in grembo da un’altra
madre hanno pensato qualche volta che ricevono un figlio che arriva con un
messaggio di futura personalità già sbozzato nel proprio cervello emozionale?
Madre: nel tuo utero scrivi il futuro di
tuo figlio
Traduzione di M. Luisa Cozzi
Per molto tempo si è pensato che le emozioni e i pensieri delle madri gestanti non influissero per nulla sullo sviluppo del feto. Oggi si sa, senz'altro, che non solo influiscono in modo decisivo ma che possono segnare il futuro del bimbo per tutta la vita. Al punto che molte delle sofferenze che potrebbe patire da adulto possono avere la loro origine in qualcosa che lo ha colpito nell'utero della madre.
Nel regno del padre
Traduzione di M. Luisa Cozzi
Il tuo bambino - e nel dire bambino, come nel dire figlio, mi
riferisco ad entrambi i sessi -, il tuo bambino, ripeto, ha già poco più - o
forse poco meno - di tre anni e oggi ti ha guardato e ha lanciato il suo primo
perché? e questo punto di domanda è stato lo squillo di clarinetto che avverte
che tuo figlio ha incominciato ormai a nascere a una nuova percezione. Finora,
nel mondo fondamentalmente emozionale, era passato da qualche semplice
balbettio alle prime manifestazioni fonetiche, poco più che semplici
onomatopee, e questi balbettii lo avevano portato al regno dei come?, maora al
come? sta già aggiungendo il perché? e ciò equivale ad entrare in un mondo
percettivo nuovo. Finora praticamente tuo figlio semplicemente esisteva, ora
incomincia ad essere sé. Ha già mangiato il frutto dell'Albero della Vita e sta
iniziando ad assaporare il pericoloso Albero della Scienza del Bene e del Male.
E questo nuovo albero percettivo sarà quello che inclinerà tuo figlio verso un
estremo o l'altro del cervello lateralizzato che ha incominciato adesso a
maturare e che si mostrerà completato quando - divenuto dualità tenebre-luce -
tuo figlio raggiungerà un'età di sette-dodici anni. E nella misura in cui va
raggiungendo quest'età ci sono sempre più perché? nel suo modo di esprimersi e
il bambino che fino ad oggi si è identificato - per imitazione o per
opposizione - con la madre, man mano lascia lei per andarsi ad unire con suo
padre. Il regno della madre non è finito - questo regno non finisce mai - però
lei sta cessando di essere una necessità primordiale. E una volta compiuti i
sette-dodici anni, il bambino è entrato ormai nel regno del padre.
Ne deriva che se era stata importante per il figlio l'influenza della madre nel
corso della gestazione, della nascita e dello stadio preverbale, per il figlio
ora non meno importante sta diventando l'identificazione con il padre. Non meno
importante ma raramente così traumatica come poté essere l'identificazione con
la madre. E questo per il semplice motivo che quell'esistenza inerme,
totalmente recettiva, senza difese, che era l'embrione, il feto e il neonato,
ora nell'infanzia dei perché? possiede già crescenti filtri razionali, di
discernimento, che gli permettono di difendersi sempre più dalle aggressioni
emozionali traumatiche.
Il processo di identificazione è tanto noto quanto visibile. Prima la madre è
tutto, poi il bambino - nel suo Big Bang esistenziale - si allontana dalla
madre - a volte addirittura la disprezza - e va verso il padre. Il padre ora è
il suo dio. Per poi nella pubertà-adolescenza ritirarsi dal padre, passando a
non dargli valore, il che gli permette di mostrare il valore e l'indipendenza
del suo io. E questo, in generale, è il processo naturale di identificazione. E
in quanto naturale, è il processo salutare che i genitori devono accettare e
addirittura promuovere.
Il
dramma arriva esattamente quando questo processo di identificazione si guasta,
il che può essere per la mancanza totale o parziale del genitore - madre o
padre emozionalmente assente - o per un eccesso di pressione identificatoria.
Perché in entrambi i casi il bambino, carente di modelli validi di
identificazione, cercherà di identificarsi con qualcuno o qualcosa di estraneo.
Qualcuno o un gruppo che possono essere il famoso o la famosa di moda, anche se
è può pure essere la droga che si condivide con un gruppo di persone i cui
traumi di identificazione sono affini ai suoi. Perché l'identificazione è
inevitabilmente necessaria nel processo di orientamento percettivo. Quello che
importa è che questo scimmiottatore che è il bambino trovi nei suoi genitori un
comportamento che sia il meno intossicato possibile.
E allora tu, madre, e tu, padre, cercate di non generare patologia. Lasciate
che i figli esplorino per conto proprio, che si vadano frammentando dall'atomo
primigenio che siete voi per generare la propria identità planetaria.
Semplicemente aiutateli a essere il più se stessi possibile. E che questo più
se stessi, sempre per quanto possibile, sia un miglior se stessi.
E non è il meglio per loro che tu, padre, inverta i modelli di identificazione
con tuo figlio. Parlo del tentativo che fa un padre di dar valore a se stesso
in rapporto al valore che, a giudizio degli altri, va acquisendo suo figlio.
Quante volte avrai sentito dire, lettore, che mio figlio sa già… quel che sia,
che è sempre qualcosa che si suppone che non abbia ancora l'età di poter
sapere. Orgoglio di genitori con bassa autostima che, con questo esercizio di
magia mimetica, si sentono più svegli loro nell'incensare l'intelligenza del
proprio figlio. Questo senza aver coscienza che stanno facendo del proprio
figlio un perdente. È stato comprovato che così come alcuni primi successi
ripetuti nell'infanzia portano il bambino a un sentimento profondo di essere un
vincente, anche alcuni primi insuccessi ripetuti portano il bambino a una
personalità da perdente. E così stando le cose, risulta chiaro il pericolo di
spingere il bambino a ottenere il successo in un ambito per il cui
conseguimento non è ancora intellettualmente maturo. Padre, se non obblighi tuo
figlio a mangiare di più di ciò che può digerire, perché lo obblighi
intellettualmente a mangiare quello che la mente non può assorbire? Limitati a
stimolare il suo appetito intellettuale - che è molto -, ma non dargli più di
quello che può chiederti. Ché nessuno può chiedere di più di quanto può
comprendere. Lo sai, devi insegnargli a pensare, non limitarti a dargli verità.
Padre, fatti bambino, gioca con tuo figlio senza competere con lui, accetta i
suoi impulsi ludici, anche qualora questi consistano nello sbudellare
giocattoli. Tuo figlio vive in un altro mondo, tuo figlio non sbudella i
giocattoli, tuo figlio sta facendogli un'autopsia, tuo figlio vuol sapere e per
questo cerca nelle viscere degli oggetti.
Accetta, padre, che - secondo la tua percezione adulta - tuo figlio è un po'
matto. Accogli con umorismo la sua follia creativa. Di più, anzi: unisciti a
questa follia, è catartica. E non dimenticare che solo un bambino che ha
giocato può diventare un adulto felice. Ma, ti prego, non dimenticare che
giocare con lui è sentire te stesso in lui. Così, giocare è condividere e
confrontare abilità tattili e sentimenti, esplorare sensazioni, simulare
atteggiamenti, dialogare con amici che non si vedono però ci sono, correre,
toccare... Questo è giocare, ché giocare non è indossare la maglietta della
squadra di calcio di papà e guardare dalle gradinate come altri non giocano ma
semplicemente competono. E che giocare forse non è appiccicare per ore il naso
a uno schermo virtuale tentando di ammazzare alieni.
Lascia che tuo figlio giochi, perché è ancora suo il regno della verità
sentita. Abbellisci i suoi giochi.Cerca di far sì che l’agro della verità
ragionata – dei perché? – entri in lui lentamente. Non cercare di far crescere
percettivamente tuo figlio anzitempo. Arriverà da sé l’età in cui tuo figlio
dovrà competere. E voglia il cielo che quel giorno capisca che colui con cui
deve competere è solo se stesso.
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